Il Gigante Egoista

La solidarietà nella religione cristiana

(A cura del prof. Ettore Giribaldi,
per la Elledici Editore)

Nella visione cristiana non esistono la “solidarietà” e la “condivisione”, se non si parte dall’Amore, che è la sorgente di tutto. L’affermazione di 1Gv 4,8: “Dio è Amore”, rappresenta il punto più alto della rivelazione dell’essere di Dio. Nella visione cristiana Dio non è un essere solitario, ma è tre persone: Padre, Figlio e Spirito Santo, che esistono e sussistono nell’atto di amarsi. E’ questo amore coinvolgente, dinamico, aperto che porta Dio a creare per chiamare l’umanità a condividere la sua gloria. Ed è la scoperta di questo amore che sempre precede ogni atto umano, che rende indispensabile all’uomo la vita nell’amore.
L’altro è, nella visione cristiana, un “figlio” di Dio, quanto lo sono io: essendo amato dallo stesso Padre, come posso non amarlo?
Il resto viene di conseguenza: l’amore non si esprime a parole, ma si rende concreto in fatti, atti, tempi dedicati al servizio dell’altro, a imitazione di Cristo che per essere grande si è fatto servo di tutti (Mc 9,35; 10,44) nell’unico vero amore che c’è: dare la vita (Gv. 15,13). Da qui la solidarietà e la condivisione cristiana.
Gesù non amava le sottili distinzioni rabbiniche attraverso le quali la Legge di Mosè veniva interpretata e spesso aggirata nel cuore dei suoi comandi. Gesù amava parlare in parabole per fare esempi di vita concreta, dai quali era impossibile sfuggire. E la parabola fondamentale sull’amore è quella del Padre Misericordioso, o se si preferisce del Figliol Prodigo, che leggiamo nel vangelo di Luca. Qualcuno potrebbe non essere d’accordo ma riascoltiamo, come fosse la prima volta, il testo del vangelo:
"Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto.
Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso suo padre.
Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio.
Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: è tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo.
Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo.
Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso.
Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»" (Lc. 15. 11-32)
E’ come se il discorso sulla solidarietà avesse due versanti: quello divino, raffigurato dall’amore paziente di Dio, che ha un atteggiamento di totale accoglienza verso tutti i suoi figli. Sia verso quello che se ne va, che verso il maggiore che si sente offeso e che il Padre va a “pregare” di far festa con lui, per i fratello “risorto” dalla degradazione del peccato. Ma c’è poi l’aspetto umano di questa parabola, che consiste nel cogliere la solidarietà nell’essere tutti quanti peccatori e bisognosi di perdono. Solo così il fratello può riconoscere il fratello: non sentendosi già salvo, ma adottando, nei confronti del Padre buono, lo stesso suo atteggiamento di perdono.
Ed alla luce di questa parabola che brilla di tutto il suo significato cristiano l’altra parabola, quella che per antonomasia viene ricordata come la parabola della solidarietà:
"Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?».
Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso».
E Gesù: «Hai risposto bene; fa' questo e vivrai».Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». Gesù riprese:
«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre.
Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno.
Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' lo stesso». (Lc 10, 25-37)
Vale la pena non perdere il contesto che provoca la narrazione della parabola: Gesù si trova di fronte ad un Maestro (uno che sa), che per provocarlo gli pone una domanda di scuola, di cui egli conosce benissimo la risposta, tant’è vero che la dà. Ma il punto non è sapere, ma fare: per questo Gesù mette di fronte agli occhi del maestro i tre atteggiamenti di fronte all’uomo malmenato e morente: il sacerdote del tempio, che cambia lato della strada, il levita, che passa oltre ed il samaritano che, come gli altri, lo vede, e patisce insieme a lui (con-patisce), gli si avvicina, lo cura lo trasporta al sicuro e paga per lui. A questo punto la domanda ha tutta la sua pregnanza: chi è il “prossimo”? Nella vita cristiana la solidarietà, radicata nell’atteggiamento d’imitazione di Cristo, nasce prima di tutto nel vedere le necessità del fratello, nel sentirle come proprie e nel fare il possibile per rendere meno grave questa situazione.
Il frutto di questo atteggiamento è la gioia, che scaturisce da un cuore che non si chiude al mondo, ma si rende capace di dilatarsi fino a contenerlo. E’ per questo, che dalla riflessione sulla realtà della carità (la parola con cui il nuovo testamento in italiano traduce il termine agape, cioè l’Amore oblativo di Dio), san Paolo fa sgorgare dalla sua penna uno dei cantici più belli del nuovo testamento. L’inno alla Carità che è il programma di vita del cristiano che traduce nella sua vita l’amore di Dio. Alla comunità di Corinto che discute su quale atteggiamento sia più importante per il cristiano, Paolo risponde con decisione: l’amore!
Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova.
La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità.
Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità non avrà mai fine.
Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand'ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l'ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto.
Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!" (1Cor 13,1-13)

Per saperne di più:

Aspetti dell’amore
"Erich Fromm sostiene che la più importante sfera in cui si esercita la facoltà di dare non è quella degli oggetti materiali. Un uomo darebbe agli altri principalmente laddove fa dono di sé, di ciò che ha di più prezioso, della sua vita. Della propria gioia, dei propri interessi, della propria comprensione, del proprio sapere e anche naturalmente del proprio senso dell’umorismo e della propria tristezza: in breve di tutto ciò che di vivo c’è in lui.
Dare non significa primariamente avere soldi, è una verità lapalissiana. Naturalmente il denaro può essere indispensabile. L’ho constatato ripetutamente nel cosiddetto terzo mondo. Mandandoci solo del denaro ci danneggiate più di quanto non ci aiutate. Il denaro può essere facilmente mal utilizzato, compromettendo ulteriormente la situazione.
Dovete dare più del denaro. Dovete venire voi stessi, donare voi stessi e poi aiutare ad utilizzare correttamente i doni materiali che ci portate, rinunciando a liberarvi a buon mercato, con un pugno d’elemosina delle questioni che vi poniamo e che vi interpellano. Fino a che ci limiteremo a mettere a disposizione denaro e know how, continueremo a dare troppo poco. Da questo punto di vista un esempio significativo ci è stato fornito dai missionari, portando Dio agli uomini, rendendo credibile il suo amore, donando un nuovo percorso esistenziale e tutti se stessi, condividendo con gli altri un’intera esistenza, non circoscrivendo il loro impegno a due o tre anni di un’interessante avventura, ma consacrandosi per sempre agli uomini, agli uomini che abitano quelle terre lontane. Se non riapprendiamo la capacità di donare noi stessi, tutti gli altri doni si riveleranno insufficienti.
Ciò che stiamo dicendo su scala mondiale, vale ovviamente anche per i singoli individui. A questo proposito Rilke ha raccontato un episodio significativo. Il poeta racconta che a Parigi si imbatteva spesso in una donna, a cui i passanti gettavano un’elemosina nel cappello. La mendicante rimaneva imperturbabile, come se non avesse un’anima. Un giorno Rilke le dà solo una rosa. In quell’istante il suo viso rifiorisce. Lei sorride, poi scompare e per otto giorni non la si vide più mendicare, perché le è stato donato qualcosa che è ben più prezioso del denaro.
Credo che questo piccolo, bell’episodio, ci mostri come talvolta una rosa, un segno di attenzione, di affetto, di accettazione dell’altro valga più di tanti soldi o di altri doni materiali"
JOSEPH RATZINGER, Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio, Cinisello Balsamo [San Paolo] 2001, pagg. 172-173.

Proponiamo due celebri immagini che raffigurano rispettivamente la parabola del Figliol prodigo e quella del Samaritano.
Figura 1:Rembrandt Harmenszoon Van Rijn, Il ritorno del figliol prodigo.
Nell’intenso quadro di Rembrandt (1606-1669), figura 1, il padre abbraccia il figlio con dolcezza, circondato da tre figure lontane, che guardano la scienza senza capirla e senza condividerla. Assorto nella gioia di questo figlio “rinato” il padre è vestito di porpora, con lo sguardo abbassato ed interamente assorto sul figlio: le mani che si poggiano sulle sue spalle, è stato fatto notare, sembrano una maschile ed una femminile, come a dire che Dio è padre e madre.
Il figlio è distrutto: i capelli rasati per i pidocchi, gli abiti laceri, un piede scalzo. La scena è buia ed intima, tutta raccolta nel momento, insperato, di poter riabbracciare il figlio pensato perduto.
Figura 2: Vincent Van Gog (1853-1890), Il samaritano.





Vincent Van Gog (1853-1890), figura 2, ci restituisce invece un’immagine del samaritano che è tutto proteso nello sforzo di issare sul suo cavallo il corpo, scomposto, di colui che ha soccorso. Nell’angolo di sinistra un personaggio, il sacerdote o il levita, si sta allontanando indifferente dalla scena. La scena è intensamente fisica: il samaritano si fa carico, fisicamente, del peso disperato di colui che è stato derubato, perché è solo in questo contatto fisico, che si veicola la carità.