Lo sviluppo

Il capitalismo ha introdotto il concetto di “sviluppo economico”: il cardine del sistema economico è la costante crescita del PIL (Prodotto interno lordo). Un calo del PIL oltre un certo limite comprometterebbe seriamente l’equilibrio del sistema economico capitalista. Dal concetto di sviluppo è stato da subito derivato quello di “sottosviluppo” ad includere tutte le aree le cui economie non erano quelle del “modello occidentale”.

Si diffuse rapidamente l’idea che esista un’unico scopo al quale ogni stato debba aspirare: lo sviluppo economico, come “chiave della prosperità e della pace” (discorso inaugurale del presidente Truman il 20/01/1949, in Latouche, 2005). Da allora nell’immaginario comune i popoli appaiono come corridori di un’ipotetica gara in cui le nazioni più ricche sono in testa e le altre sono rimaste più o meno indietro. Si pensava allora che i paesi più poveri, seguendo l’esempio di quelli più ricchi, avrebbero finito col raggiungere gli stati in testa e migliorare il loro benessere. Dopo 60 anni possiamo affermare che le distanze che li separano dai paesi più ricchi sono anzi persino aumentate.

Oggi il concetto di sviluppo è stato oggetto di numerose critiche. Innanzitutto lo sviluppo prevede una costante riproducibilità, cosa che se teoricamente ipotizzabile, non lo è nella pratica, perché disponiamo di risorse naturali finite e l’uomo le sta erodendo sempre più velocemente. In secondo luogo ha perso credibilità l’efficacia del “trickle down effect” (effetto ricaduta), che dava consistenza alla teoria dello sviluppo. Si sosteneva, cioè, che i benefici della crescita si diffondessero e che i poveri potessero automaticamente trarre vantaggio dall’aumento dei posti di lavoro e dall’aumento della produzione di beni e servizi, quindi il primo mondo avrebbe trainato il terzo nella corsa allo sviluppo.

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Negli ultimi decenni però l’economia è molto cambiata: i mercati finanziari sono stati deregolamentati, le intermediazioni ridotte notevolmente e sono stati introdotti prodotti che hanno legami sempre più fragili con il sistema economico reale e non sono più in grado di offrirne una rappresentazione coerente. Questo ha permesso di ampliare la forbice della diseguaglianza: i ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Secondo il rapporto del 2001 dell’United Nations Development Programme (UNDP) “il quinto più ricco della popolazione mondiale detiene l’86 per cento del Pil mondiale contro l’1 per cento del quinto più povero” (Come sopravvivere allo sviluppo, di S. Latouche, Bollati Boringhieri, 2005, p.20). Altre critiche mosse allo sviluppo riguardano il debito spropositato che soffoca i paesi più poveri, la messa in crisi del welfare, l’”omnimercificazione” (traffico di organi, industria culturale, la brevettabilità di qualsiasi cosa, anche di esseri viventi), l’indebolimento degli Stati-nazione e l’emergere di società transnazionali.

Alcuni studiosi ritengono che per far fronte a queste conseguenze negative, occorre correggere metodi e prassi dello sviluppo, nascono così alcuni derivati dello sviluppismo, come “sviluppo durevole”, “sviluppo sostenibile”, “sviluppo equo”, “sviluppo locale”, “sviluppo sociale”, ecc. Si vuole ridefinire lo sviluppo aggiungendo alla crescita economica una componente sociale, culturale ed ecologica. Accanto al Pil oggi si ricercano altri indici che possano meglio rappresentare le condizioni sociali di alcuni stati: ad esempio l’Hdi (Human Development Index, indice dello sviluppo umano) o il Pqli (Physical Quality of Life Index, indice della qualità fisica di vita). Se da una parte questi indici sono utili a fornire altri punti di vista da cui guardare la realtà, è anche vero che l’interpretazione di essi dipende da quali criteri vengono adottati nella definizione di tali indici da parte delle organizzazioni internazionali. Un terzo indice molto importante, che è stato recentemente proposto, è il Genuine Progress Indicator (Indice di progresso autentico), che corregge il Pil sulla base delle perdite dovute all’inquinamento e al degrado dell’ambiente.

 

The Millennium Development Goals Report - 2010 - United Nations