Quali diritti?

Esistono sostanzialmente tre tipi di diritti: quelli civili, quelli etnici e quelli religiosi. Una strategia per l’ottenimento dell’eguaglianza, che fondi le sue ragioni soltanto su un ramo dei diritti fondamentali presenta dei limiti evidenti: la lotta per i diritti civili esclude gli stranieri, quella in difesa dei diritti etnico-culturali esclude coloro che non sono appartenenti a quella determinata etnìa o che non appartiene soltanto a quella etnìa, infine i movimenti per i diritti religiosi escludono naturalmente i non credenti.

Un diritto che potrebbe servire da denominatore comune è la Carta dei diritti dell’Uomo, se non fosse che viene continuamente violata dai governi con giustificazioni etnico-culturali. Non siamo tutti uguali dappertutto, “ciò che è auto-evidente in una cultura può apparire del tutto inconcepibile in un’altra, e se quella dei diritti umani può sembrare una bellissima ideologia, resta nondimeno un’ideologia” [L'enigma multiculturale, G. Baumann, 2003, p.13]. Sì, i diritti umani non sono da tutti e per tutti condivisibili, basti pensare alla condizione del richiedente asilo, la cui richiesta può essere accolta oppure respinta (con il conseguente reimpatrio) a discrezione dello Stato ospitante, ma anche per coloro che rimangono in patria la Carta dei diritti umani non è uno strumento sufficiente alla tutela dei loro diritti perché “giuridicamente non vincolante”.

Anche la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1950), pur giuridicamente vincolante, lascia ampi spazi all’interpretazione. Spesso si fa confusione tra le diverse tipologie di diritti, civili, di comunità o religiosi, a cui ci si appella, forse anche perché politicamente conveniente: oscillando da un diritto all’altro si è più flessibili e si possono raggiungere migliori compromessi. Ma la logica alla base dei diversi diritti è fondamentalmente diversa.

Per superare l’inefficienza degli strumenti a disposizione occorre riflettere sul concetto di cultura. Ci sono principalmente due modi per concepire la cultura: quello “essenzialista” e quello “processuale” , a seconda se la si considera come “qualcosa che si possiede o come un processo che si modella” [L'enigma multiculturale, G. Baumann, 2003 p.89].

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Concetto essenzialista di cultura: ogni cultura, sia essa nazionale, etnica o religiosa, è considerata come un oggetto finito, cioè come qualcosa che si è creato e trasformato nel tempo, ma che ora ha concluso la sua trasformazione ed è in grado di influenzare le scelte dei singoli. Finora sembra essere la concezione più influente. Certamente questa visione del mondo permette di determinare limiti netti e precisi tra ciò che è parte di una determinata cultura e ciò che non lo è, ma corre sovente il rischio di stereotipare alcuni comportamenti, cosicché si pretende di prevedere come agirà un membro di una determinata cultura, soltanto perché membro di questa cultura, cioè di un musulmano in quanto musulmano, di un italiano in quanto italiano, ecc. Ma ognuno di noi è membro di molteplici culture e sottoculture, determinate da particolari categorie sociali: esiste una cultura etnica, una religiosa, una nazionale, ma anche una legata alla regione di residenza, una legata alla professione, un’altra legata ad un hobby piuttosto che una passione (motociclisti, surfisti, punk, ecc.). Le intersezioni che si formano attraverso l’incrocio di tutte le diverse culture è pressoché infinito.

Concezione processuale della cultura: tutte le diverse culture sono in continuo cambiamento, proprio perché fatte e rifatte dagli uomini. Se è vero che la cultura influisce l’uomo nelle sue scelte, è anche vero che l’uomo adatta e rielabora le proprie scelte contribuendo al cambiamento culturale.

Ad un primo sguardo le due concezioni sembrano contrapporsi, ma in realtà non sono che due facce della stessa medaglia: l’una è la fotografia di un istante, mentre l’altra è una ripresa video che non ha una fine determinata. Una visione essenzialista della cultura implica necessariamente una concezione processuale della stessa.