Quante migrazioni?

Con il termine migrante si intendono spesso individui, le cui biografie sono spesso anche molto diverse tra loro. Mettiamo quindi un po’ d’ordine tra le diverse definizioni.

Migrante
nel 1998 le Nazioni Unite stabiliscono che il migrante è “una persona che soggiorna in un paese di cui non è cittadino/a per almeno 12 mesi” (Nazioni Unite, 1998).

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La convenzione ONU sulla protezione dei diritti dei Lavoratori Migranti e dei Membri delle loro Famiglie considera come migranti “tutte le persone che eserciteranno, esercitano o hanno esercitato un’attività retributiva in uno Stato di cui non sono cittadini” (Nazioni Unite, 1998). Sono così inclusi gli stagionali o coloro che in maniera più o meno ricorrente svolgono la loro prestazione lavorativa all’estero, ma non rientrano i turisti e coloro che non intendono spostare la propria residenza o che comunque non rimangono a lungo nel paese di destinazione.
Migrazioni internazionali:
“movimenti di popolazione che comportino il superamento di uno o più confini statali, con il conseguente cambiamento di status legale degli individui coinvolti” (Comunicazione interculturale, a cura di F. Colella e V. Grassi, Franco Angeli, 2007).
Migrazioni interne:
“coinvolgono quelle persone che, non oltrepassando i confini del proprio Stato, sono portati a compiere distanze fisiche e culturali, che hanno importanti conseguenze sul piano sociale e politico” (Comunicazione interculturale, a cura di F. Colella e V. Grassi, Franco Angeli, 2007).

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Basti pensare all’imponente fenomeno migratorio che ha visto milioni di italiani migrare dal Sud Italia al Nord Italia intorno al 1960 e poi successivamente a più riprese. A seconda della durata dell’assenza del cittadino dal proprio Paese d’origine e della residenza nel Paese d’arrivo, si possono avere migrazioni temporanee o permanenti. Il primo caso è tipico degli stagionali o dei frontalieri, che ne rappresentano la forma estrema. Le politiche di molti paesi oggi incoraggiano e agevolano le migrazioni temporanee, ma non quelle permanenti, perché, tra le altre cose, queste ultime richiedono un notevole impegno sociale ed economico da parte del paese ospitante.
Migrante regolare:
il migrante si muove nel rispetto delle leggi del proprio paese d’origine, di quello di destinazione e di quelli attraversati.
Migrante irregolare:
il migrante si è mosso nel rispetto delle leggi, ma, pur avendo inizialmente ottenuto il visto d’ingresso nel paese d’arrivo, si trova poi, a causa di limitazioni legislative, a non poterlo rinnovare.
Migrante clandestino:
si muove al di fuori della legalità, senza documenti e le autorizzazioni necessarie a risiedere nel paese ospite, spesso sono soggetti a misure legali come l’arresto, la detenzione, l’espulsione, la deportazione, e sempre più spesso la violazione dei diritti umani.
Migrazioni volontarie:
“sono migrazioni legate a esigenze lavorative o a cicli lavorativi” (Comunicazione interculturale, a cura di F. Colella e V. Grassi, Franco Angeli, 2007).

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In questi casi sono inserite anche le migrazioni di ritorno (ritorno al paese d’origine dopo anni di residenza all’estero) e i ricongiungimenti familiari.
Migrazioni forzate:
movimenti non- volontari di persone, che fuggono da situazioni di violenza, guerra, di violazione dei propri diritti, o da disastri ambientali naturali o causati dall’uomo” (Comunicazione interculturale, a cura di F. Colella e V. Grassi, Franco Angeli, 2007).

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La distinzione tra migrazioni volontarie e forzate non è netta perché a seconda delle situazioni esistono molte sfumature e stadi intermedi. Spesso i soggetti protagonisti delle migrazioni forzate rientrano nella categoria di rifugiati o in quella di richiedenti asilo.
Rifugiati:
nel 1951 un’apposita convenzione delle Nazioni Unite definisce per la prima volta rifugiato come “una persona che, a causa di una legittima paura di essere perseguitata per ragioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un particolare gruppo sociale o ad un’opinione politica, si trovi fuori dal proprio paese d’origine e sia impossibilitata, o non voglia, affidarsi alla protezione di quello stesso paese” (Unhcr and Inter-Parliamentary Union, 2001).

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Nel 1969 l’Organizzazione dell’Unità Africana (oggi Unità Africana) ha adottato una definizione più ampia definendo rifugiato come “qualsiasi persona che sia costretta a lasciare la sua residenza abituale a causa di aggressione, occupazione, dominazione straniera, o di eventi che disturbino seriamente l’ordine pubblico in una parte o nel proprio intero paese di origine o di nazionalità” (Colella-Grassi, 2007). Nel 1984 nella Dichiarazione di Cartagena i governi dell’America Latina hanno deciso di considerare come rifugiati tutte quelle persone “che lasciano il proprio paese perché la loro vita, sicurezza, o libertà è minacciata da violenza diffusa, aggressione straniera, conflitti interni, violazioni su larga scale dei diritti umani o per ogni altra circostanza che possa disturbare l’ordine pubblico” (Colella-Grassi, 2007).
Richiedente asilo:
persona che pur avendo fatto richiesta d’asilo, non ha ancora ricevuto il riconoscimento del proprio status di rifugiato.

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Sia per i rifugiati sia per i richiedenti asilo la Convenzione dell’ONU sui Rifugiati obbliga gli stati firmatari a rinunciare alla propria sovranità nel decidere chi possa o meno entrare nei loro territori, con l’unico scopo di proteggere i migranti dalle persecuzioni di cui essi sono oggetti in patria, accoglierli e trattarli senza alcuna discriminazione nell’accesso ai benefici sociali e nel godimento dei diritti umani, senza riguardo alle proprie leggi in materia di immigrazione. Chiunque può presentare richiesta d’asilo, ma lo Stato non è obbligato ad accoglierla né a estendere il trattamento previsto per i rifugiati anche ad altri migranti. Il riconoscimento dello status di rifugiato è oggi un processo lungo, non privo di difficoltà, che si basa sull’analisi del singolo caso ed ha regole e procedure diverse per ogni stato. Il rifugiato gode del diritto di non essere rimpatriato e di non essere sottoposto a misure legali, ma può essere, a certe condizioni, inviato a un altro Paese.
I profughi interni
sono “coloro che abbandonano la propria residenza abituale per le stesse ragioni dei rifugiati, ma senza uscire dai confini del proprio paese di origine” (Comunicazione interculturale, a cura di F. Colella e V. Grassi, Franco Angeli, 2007).

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A costoro non viene applicata la Convenzione. L’unica assistenza di cui godono i profughi interni è quella fornita dalle ONG. Non è stata data fino ad ora una risposta rilevante a questo problema.
Traffico di esseri umani:
“reclutamento, trasporto, protezione o ricezione di persone, ottenuti tramite l’uso della forza o di altre forme di coercizione, rapimento, frode, detenzione, abuso di potere nei confronti di chi sia in una posizione di vulnerabilità, o tramite ricevimento o elargizione di pagamenti o benefici per ottenere il consenso a che una persona abbia il controllo su un’altra a fini di sfruttamento” (IOM 2003).

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Le migrazioni sono diventate un terreno fertile per le organizzazioni criminali. I migranti vengono fatti entrare illegalmente nei paesi di destinazione dietro compensi in denaro o altri benefici materiali. Nella maggior parte dei casi si tratta di migrazioni volontarie, ma i metodi adottati da tali organizzazioni sono molto spesso lesive della dignità umana e dei diritti dei migranti, che vengono trattati come merce e costretti a viaggiare al limite della sopravvivenza. Le migrazioni di questo tipo sono considerate pertanto alla stregua delle migrazioni forzate, perché l’inganno e la violenza delle organizzazioni criminali non si conclude con l’ingresso dei migranti nel paese di destinazione, ma si prolunga nel loro successivo sfruttamento (sessuale, del lavoro, adozioni, matrimoni combinati, commercio di organi).
Diaspora:
Oggi si applica questo termine a “qualsiasi minoranza etnica o religiosa i cui membri condividano alcune delle seguenti caratteristiche:
- che essi o i loro antenati siano stati dispersi da una patria originaria verso due o più regioni straniere;
- che si tramandino, in forma storica o mitica, la memoria della loro terra di origine;
- che credano di non essere mai completamente accettati nelle società in cui risiedono e quindi tendano a rimanerne separati;
- che idealizzino la loro terra di origine e aspirino ad un futuro ritorno, proprio o dei propri discendenti;
- che credano che tutti i membri della diaspora abbiano l’obbligo di conservare o di restaurare la loro terra di origine, la sua sicurezza e prosperità;
- che continuino a relazionarsi in vari modi con la loro patria e con la loro comunità etnica.” (Comunicazione interculturale, a cura di F. Colella e V. Grassi, Franco Angeli, 2007)

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Diaspora è una parola di origine greca (“διασπορά”, dispersione; “διασπείρω”, disseminare). Il termine diaspora fu utilizzato inizialmente per indicare la colonizzazione dell’Asia Minore da parte dei greci. L’accezione negativa del termine fu introdotta dalla Bibbia, che definiva così la dispersione del popolo d’Israele in seguito alla colonizzazione babilonese. In seguito diaspora finì per identificare generalmente le persecuzioni e le deportazioni di cui il popolo d’Israele fu oggetto.