La vita che ti diedi | Trama ragionata

la vita che ti diedi

La vita che ti diedi è il testo più struggente di Luigi Pirandello sul tema della maternità.
Leggendolo si capisce bene che, mentre lo scriveva, avesse in mente una donna precisa.
Il più bel personaggio femminile del repertorio pirandelliano.
Ne I pensionati della memoria del 1911, Pirandello si interroga sul rapporto tra i vivi e i morti, e formula forse per la prima volta l’idea disturbante che quando si piange la perdita di una persona cara, non è la persona amata che si sta piangendo: «Voi piangete perché il morto, lui, non può più dare a voi una realtà».
In Colloquii coi personaggi, scritto subito dopo la morte della madre, Pirandello esplora la stessa idea in un lungo e struggente dialogo con la defunta: «Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me; tu sei viva, viva com’eri, con la stessa realtà che per tanti anni t’ho data da lontano, pensandoti, senza vedere il tuo corpo, e viva sempre sarai finché io sarò vivo; ma vedi? è questo, è questo, che io, ora, non sono più vivo, e non sarò vivo per te mai più!».

La vita che ti diedi viene scritto tra gennaio e febbraio 1923.
La prima va in scena il 12 ottobre 1923 a Roma, Teatro Quirino, con la Compagnia Alda Borelli.
Scritta per Eleonora Duse, che però non fece in tempo a interpretarla, perché morì a Pittsburgh nel 1924.

Personaggi

Donna Anna
Lucia Maubel
Francesca Noretti, sua madre
Fiorina Segni, sorella di Donn’Anna
Don Giorgio Mei, parroco
Lida e Flavio, figli di Donna Fiorina
Elisabetta, vecchia nutrice
Giovanni, vecchio giardiniere
Due fanti
Donne del contado

Atto 1

Stanza nuda e fredda, di grigia pietra, nella villa solitaria di Donna Anna Luna.
Il parroco e le donne pregano per il figlio di Donna Anna morto nel suo letto.
Il parroco ammonisce: «A sviarsi così dagli altri, dagli usi, ci si può smarrire, e… e non trovar più compagni al dolore nostro».
Donna Anna non è pazza.
È uno di quei personaggi pirandelliani che sembrano pazzi agli occhi di chi vive entro rigidi schemi che prevedono ad esempio rituali, veglie funebri, preghiera e rassegnazione per la morte di un figlio.
Donna Anna esce dagli schemi facendo vacillare le certezze di chi guarda e ascolta i suoi ragionamenti.
La donna ha atteso per sette anni che il figlio tornasse dai suoi studi e dalla vita che si era costruito altrove.
Quando lo rivede non lo riconosce per quello che era prima: in un certo senso quel figlio che ricordava era già morto ai suoi occhi al momento del suo reale ritorno alla sua casa.
Quel corpo morto che giace nella stanza appartenuta al figlio amato, le sembra solo un corpo estraneo per il quale non riesce a piangere e dal quale non ha bisogno di staccarsi con rituali perché non è per lei suo figlio.
Così il figlio può continuare a vivere nella vita che lei vuole dagli, come la vita che gli diede al momento del parto, ogni giorno, parlandogli, immaginandolo vivo, può ancora farlo essere vivo come quando lo pensava lontano, nella sua vita da studente o di lavoratore lontano.
Pensandolo vivo, così, può continuare ad amarlo.
Non serve la vita reale del figlio perché sia vivo per lei, le basta la memoria di un sogno, è il sogno ad essere vivo.
Finché Donna Anna è viva, può continuare a farlo vivere e nella sua mente non può essere altrimenti, perché non abbia più vita il figlio dovrebbe morire anche lei che la vita glie l’ha data alla nascita, mentre lei è viva.
Per questo motivo, Anna spiega a don Giorgio e a Donna Fiorina che il corpo morto deve velocemente uscire da quella casa.
Lei deve continuare a far vivere la stanza del figlio con la vita che lei gli dà.

Atto 2

La stessa scena del primo atto, verso sera; pochi giorni dopo.
Protagonisti: Giovanni sulla soglia dell’uscio, Elisabetta, Donna Anna e sua sorella Donna Fiorino.
Irrompono nella stanza anche Lida, sui diciotto anni, e Flavio, sui venti, partiti lo scorso anno dalla campagna per i loro studi in città.
Elisabetta uscirà prima, poi usciranno Donna Fiorina, Lida e Flavio.
La scena resterà vuota e buia.
Sembra poi apparire il fantasma del figlio, ma tutto rimane sospeso.
Donna Anna trasforma tutto in una sorta di recita a beneficio suo e di chi arriva in quella casa, in cui non si deve dire che il figlio è morto, ma che tornerà.
Nessuno veste il lutto, la stanza del figlio è pronta al suo ritorno, fresca, piena di fiori.
Vittima della recita è l’amante del figlio che arriva da lontano dopo aver ricevuto una lettera.
In parte è stata scritta dalla madre, per continuare a dare vita al figlio.
La giovane è incinta e vorrebbe dare la notizia all’amato.
Credendo che sia solo partito resta a dormire nella sua stanza, sperando di poterlo rivedere.
Lucia, confessa alla sua nuova madre, Donna Anna, di non aver mai amato il suo vero marito.
L’aveva presa con la forza in quanto legittimo consorte e costringendola a diventare madre di due figli.
Lucia considera i due figli frutto di violenza e a lei estranei.
Solo l’amore del giovane amato le ha fatto pensare ai suoi figli come suoi propri e le ha fatto desiderare questo nuovo figlio per vivere finalmente la maternità con gioia.
Le speranze che l’aiutano a prendere sonno saranno tradite al risveglio.

Atto 3

La stessa scena, la mattina dopo, nelle prime ore.
Sulla soglia dell’uscio in fondo appare Giovanni che darà passo alla signora Francesca Noretti arrivata dalla stazione angosciata.
A casa di Donna Anna arriva anche la madre della giovane, la severa Francesca Noretti, giunta da quel lontano indecifrabile da cui è venuto anche il figlio come anche la sua giovane donna, Francesca Noretti riesce a rappresentare la grettezza della ragione, la negazione della corda pazza che non è forse completamente un atteggiamento utile alla mitigazione del dolore, ad affrontare la vita, ma è realismo e insieme negazione della speranza, incapacità di considerare altre possibilità di esistenza e di verità.
Lucia scopre che Donna Anna le ha mentito, la pensa sicuramente pazza, ma poi pensa di rimanere lì in quella casa con lei, assumendola come madre con cui far crescere il suo bambino continuando a far vivere il suo innamorato nel suo cuore attraverso il figlio che nascerà.
Ancora una volta è la vera madre Francesca a cercare di riportarla alla comune ragione, al rispetto delle convenienze tornando a casa, dai suoi figli per vivere nel decoro.
Donna Anna ha un crollo quando scopre da Lucia che il figlio era tornato consapevole di andare a morire nella sua casa natale, capisce che quello che era tornato, non lo aveva riconosciuto perché la vita lo aveva cambiato, la vita lo aveva ridotto a qualcosa di miserevole.
La consapevolezza della miseria toccata al figlio lo fa apparire realmente morto ai suoi occhi.
Il cambio di situazione emotiva è evidenziato scenograficamente mutando la stanza del figlio, prima apparsa piena di luce che filtrava dalle finestre, ingombra di fiori e oggetti d’uso, in una stanza nera, con solo un letto dalla testiera di legno, una coperta nera.
La madre disfa il letto come a decretarne la definitiva morte nella certezza che non tornerà mai a dormirci e si accoccola sul materasso nudo.
Proprio ora che è morto per lei, il figlio la va a visitare abbracciandola, perché anche se nel mondo facciamo prevalere la corda civile e la consapevolezza, la vita è più forte e prosegue realmente nel pensiero che dà la vita, nel sogno che è vita.
La condizione di dolore e di negazione di Donna Anna diventa una metafora della difficoltà dell’essere umano di elaborare il lutto e di accettare la perdita.

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Così è (se vi pare)

Lumìe di Sicilia – Copione

(SFA, “Storia del Teatro” – Relazione a cura di Eva Giaccone)

Eva Giaccone

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